C’è stato un tempo, forse qualcuno lo ricorda, in cui l’unico modo per condividere le fotografie era scambiarsi dei rettangoli di carta fotosensibile opportunamente trattata – le stampe – oppure, nei casi più sofisticati, assistere alla proiezione di piccoli pezzi di pellicola invertibile – le diapositive. Spesso queste ostensioni avvenivano durante una sorta di atroce cerimonia laica; al ritorno dalle vacanze o dal viaggio di nozze si invitavano a cena gli amici e, con le gole ancora piacevolmente irritate dall’ammazzacaffè, iniziava la visione dei reperti visuali di spiagge tropicali e Torri Eiffel spesso non meno inclinate di quelle di Pisa, ripresa anche lei con il nostro amico in posa plastica nel tentativo simulato di puntellarla.
Ora, fatte le dovute e rare eccezioni, se c’era un’emozione che la faceva da padrona in questi casi era la noia. Perché anche a voler credere che l’autore avesse portato il mirino agli occhi e il dito sul pulsante in seguito all’esperienza di una emozione genuina, il procedimento per convincere tale esperienza ad entrare nella macchina fotografica era ed è una faccenda del tutto diversa, e spesso condannata a risultati deludenti. Le fotografie venivano fuori scialbe, an-estetiche e totalmente anempatiche; e i tentativi di rivitalizzarle tramite didascalie verbali – spesso ancora più deprimenti delle immagini – riuscivano solo a evocare le sacrosante parole di Cartier-Bresson secondo cui una fotografia è come una barzelletta: se occorre spiegarla vuol dire che non è venuta bene.
Oggi le cose sono cambiate solo fino ad un certo punto: per vedere le fotografie un supporto fisico è ancora necessario, solo che quello che oggi usiamo è capace di “rigenerare” l’immagine a partire da file digitale che immagine non è. Una differenza che, al prezzo di trascurabili questioni di ontologia visuale, rende non indispensabili le visioni “in presenza”. Mentre però questo accadeva, si verificava anche un altro fenomeno curioso: la fotografia ha finito con acquisire una delle qualità più popolari delle emozioni: l’impalpabilità. I milioni di foto scattate ogni giorno sono relegate alla dimensione digitale, sequenze di zeri e uno in cui si diluisce il loro contenuto, emozioni comprese. Sempre che anch’esse facciano parte del contenuto dell’immagine
Perché resta sempre da capire come trasferire l’impalpabilità dell’emozione in quella della fotografia, di modo che la riproduzione della seconda renda la prima disponibile fragrante e sorgiva come era nella mente – o se si vuole nell’anima – chi l’ha scattata.
PhotoSì è un servizio di stampe fotografiche online, con una serie di terminali fisici – tipicamente laboratori grafici e fotografici, ma non solo – presso cui è possibile ordinare o ritirare le stampe. Il suo slogan, lo stesso da sempre, si pone a valle del problema, che evidentemente considera risolto; la sineddoche che passa dal contenitore – l’immagine – al contenuto – l’emozione – sembra presupporre che la seconda sia stampabile, e quindi visionabile – senza difficoltà.
Per esporre le proprie emozioni – in un modo che, ovviamente, le renda condivisibili – basta inquadrarle, scattare loro delle fotografie e stamparle. Facile. Possiamo quindi tornare, pieni di fiducia ai dopocena con gli album da sfogliare.
Ovviamente esiste anche un’altra possibilità. Che l’emozione stampata sia visibile solo a chi ha vissuto in prima persona la scena, vale a dire al fotografo. Il compito della stampa non sarebbe quindi di rompere il bozzolo di solitudine in cui le emozioni tendono a circondare ciascuno di noi in forza della loro suprema irriducibilità a qualsiasi traduzione; ma sarebbero piuttosto una sorta di ravvivatore emotivo, capace di ridare lo smalto del momento ad una impressione che il tempo tende ad ossidare.
Ridotta al recinto del solipsismo, la fotografia emotiva ritrova ovviamente una sua insindacabile validità. Che, a differenza della fotografia senza sfoghi sentimentali, ci lascia ancora più soli, impedendoci di parlare ad altri che a noi stessi.
Grazie a Federica Galli per la segnalazione
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